La finestra e la luna

Da piccolo avevo una convinzione, che persiste ancora oggi: le finestre sono dei portali verso altri mondi. Non so di preciso perché le finestre e, per esempio, non le porte (che poi sarebbe anche più logico), forse perché dalle prime era possibile vedere il mondo esterno; dalle seconde, no. Fatto sta che avevo questa convinzione: ognuno viveva nel suo micro mondo chiamato casa e, per spostarsi, doveva andare nelle zona comune, le strade.

Questa idea è rimasta in me in modo inconscio tanto che, in diversi sogni, io, protagonista indiscusso ed eroe supremo, per inseguire il cattivo o compiere la mia buona azione quotidiana da “Ehi Karma Up!”, devo passare attraverso una finestra, di solito minuscola.

Sogni a parte, tre sono le finestre che, in un modo o nell’altro, mi hanno, per modo di dire, segnato.

La prima si trova a casa dei miei nonni e, per la precisione è la finestra della cucina: una finestra normale che dà su un cortile, altrettanto normale, con i box e un giardinetto rettangolare composto da alberi e qualche pianta aromatica. Sul lato destro di questo piccolo spazio verde si snoda una stradina fatta con delle lastre quadrate di cemento, tutto perfettamente normale. Ma quindi cosa solleticava la mia immaginazione? Il fatto che, dalla finestra e solo da quella finestra, fosse impossibile vedere, a causa di una siepe, l’angolo destro posteriore del giardino o, per rendere il tutto più misterioso, dove andava a terminare la stradina.

Ora, io so che termina nel nulla e che fu costruita solo per non calpestare il verde ma, per moltissimo tempo, la mia mente da bambino rimase convinta che ci fosse una sorta di passaggio segreto nel muro che poteva condurre in un posto ancora più magico. Ricordo, come fosse oggi, che nel momento in cui ebbi per la prima volta questa epifania, stavo leggendo Le Cronache di Narnia. L’associazione fu facile: loro possono andare a Narnia attraverso un armadio? Beh, io ci andrò attraverso il muro. Non vi dico la delusione quando scoprii che quel muro era, solo, muro.

La seconda finestra è quella di camera mia e, anche questa dà su un giardino, a primo sguardo normale. Siamo ancora in un giardino rettangolare, più grande di quello di prima, senza alcuna stradina e “sopraelevato” rispetto alla zona dei garage (insomma come dire che i garage sono al piano 0 e i giardini al piano 1). Non ho idea di quanto tempo abbia passato lì, principalmente a giocare a pallone con i miei primi amici della scuola elementare. Se mi affaccio posso ancora vedere l’arbusto che ti pungeva ogni volta che provavi a recuperare il pallone dalle sue grinfie, la siepe sul lato lontano che serviva come limite al nostro fittizio campo da calcio ma anche per osservare cosa succedeva “al di là” dello stesso e, infine, i due alberi che fungevano da porta. Erano messi a una distanza perfetta, tanto che spesso mi sono chiesto se non avessero deciso di crescere in quel modo proprio per permetterci di usarli come pali. Non penso, ma resto nella mia convinzione.

Tra noi bambini vigevano due regole non scritte e a malapena sussurrate: nel caso in cui la palla fosse caduta nella zona bassa(quella dei garage per intenderci) il responsabile avrebbe avuto l’onere di andare a recuperarla, di corsa possibilmente; se la palla fosse finita nella Zona Proibita, tutti avrebbero dovuto farsi coraggio e affrontare il pericolo.

La Zona Proibita non esiste e non c’è nessun pericolo, era solo un modo che avevamo noi per chiamare una parte strana del giardino. Proverò a farvi capire meglio. Immaginate un rettangolo dove però uno dei lati corti non si congiunge con uno dei lati lunghi e, di conseguenza, non si chiudono nel caratteristico angolo retto ma lasciano aperto un pertugio. Ora pensate di passare attraverso questo pertugio e trovarvi all’interno di un altro giardino, molto piccolo e sempre rettangolare, con nulla. Ecco, siete nella Zona Proibita. Per molto tempo, ricordo, abbiamo pensato che quella porzione di verde non fosse nostra ma di un altro gruppo di appartamenti; era chiamata Zona Proibita anche perché era, appunto, vietato, nascondersi lì durante nascondino. Non che qualcuno ci fosse mai andato, la paura dei mostri era troppo grande, non eravamo ancora dei prodi eroi.

L’ultima finestra non si trova in Italia ma in Francia, a Caen, se vogliamo essere precisi, ed era la finestra della mia minuscola stanza (o forse dovrei dire del mio minuscolo mondo?) al campus. Ho amato quella finestra fin dal primo giorno e, anche se sembrerà strano, è probabilmente una delle cose che più mi mancano. Da lì era possibile avere un numero infinito di informazioni utili: il tram era già arrivato o potevo stare ancora dieci minuti a letto? La mensa era ancora aperta o dovevo ruspare nel frigo? Facevo in tempo ad andare al Carrefour a prendere del cioccolato? Insomma cose utili per la sopravvivenza.

E poi c’era la luna. Da sotto le coperte potevo vederla: splendente, nitida, a volte accecante ma sempre presente. Quando decidevo di andare a letto passavo qualche minuto a osservarla e a salutarla, come una vecchia amica. Ho anche immaginato – sperato di essere l’unico a vederla, che lei fosse lì solo per me e forse non avevo neanche tutti i torti. Troppo presuntuoso? Forse, ma la mia stanza era l’unica con le tende perennemente non tirate: pioggia, vento, neve, grandine non importava: non potevo oscurarla.

Ho un ricordo vivido, uno di quelli che non si possono dimenticare e se chiudo gli occhi, mi sembra di essere ancora in quella stanza: è il giorno prima di un esame e sono sdraiato. Sono quasi pronto a dormire ma voglio terminare il capitolo del libro per far passare l’agitazione, non ci riesco, il sonno è troppo forte. Chiudo gli occhi un attimo, il libro ora è appoggiato sulla coperta e il mio dito funge da segnalibro. Lo metto sulla mensola e spengo la luce. Osservo il cielo e lei è lì luminosa, piena, a osservarmi, a proteggermi e a dirmi che andrà tutto bene.